Da anni lo Studio Palcani rappresenta i familiari di lavoratori che in seguito a malattie contratte sui luoghi di lavoro, poi rivelatesi fatali, avanzano richiesta di risarcimento dei danni.
Purtroppo non è una novità constatare come la sicurezza sul lavoro sia spesso tralasciata, anche se indubbiamente sta crescendo una maggiore consapevolezza da parte delle aziende, rafforzata anche dalle normative in materia.
Lo studio legale Palcani ha assistito diverse famiglie di lavoratori assunti in fonderie meccaniche, siderurgiche e chimiche, aziende particolarmente esposte ai rischi per la salute dei lavoratori proprio a causa dei processi di lavorazione del materiale.
Non possiamo considerare certo il riconoscimento del danno alla salute subìto e il conseguente diritto al risarcimento riconosciuto agli eredi come un ristoro proporzionato alle gravi perdite umane conseguenti alla scarsa sicurezza sui luoghi di lavoro, accertata nei casi seguiti dallo studio legale Palcani.
Ci consola il fatto che le perdite di vite umane non siano rimaste senza sanzione e ci auguriamo che siano da monito per una corretta messa in sicurezza dei luoghi di lavoro.
In molti dei casi seguiti, l’esposizione ad amianto era dovuta alla presenza di forni per il trattamento termico dei metalli; forni in cui, per poter resistere alle elevate temperature, venivano costantemente utilizzati materiali termoisolanti contenenti amianto (o asbesto); i materiali termoisolanti, nella lavorazione, venivano manipolati continuamente dai dipendenti, i quali tamponavano i pezzi metallici con teli di amianto, attraverso “fasciature degli stessi”, onde poter far raggiungere ai pezzi la stessa temperatura.

In tale contesto lavorativo si realizzava una sicura situazione di rischio da esposizione ad amianto a causa della continua liberazione di polveri dovuta sia alle lavorazioni, sia al frequente verificarsi di operazioni di manutenzione e riparazione delle strutture stesse, sia alla manipolazione giornaliera di amianto.

In altri casi seguiti, il lavoratore doveva preparare colate di acciaio per mezzo delle c.d. “materozze o siviere” rivestite internamente con strati di mattoni refrattari e teli di amianto: nella materozza venivano immessi materiali ferrosi differenti a cui venivano aggiunti vari metalli ed oli, a seconda del prodotto da ottenere; le materozze venivano poi chiuse con un coperchio per consentire la fusione a calore di oltre1600 gradi. Successivamente alla colata, il lavoratore procedeva alla rimozione dei residui e delle scorie, entrando personalmente nella materozza e utilizzando martello e scalpello (producendo pulviscolo di scorie di amianto), predisponendo poi il nuovo rivestimento delle materozze per le ulteriori colate.

Queste operazioni venivano effettuate due o tre volte al giorno e ogni volta andava ripristinata la copertura di mattoni refrattari e fasciatura di amianto, con successiva demolizione di mattoni e rimozione di fasciature.

Il Sig. Z, come molti altri, invece lavorava con mansioni di formatore in fonderia e successivamente di molatore e carropontista a terra. Veniva dunque impiegato nelle operazioni di colatura di ghisa liquida in stampi di ferro e successivamente nella preparazione, con la mola, di stampi campione che venivano trasportati con il carroponte dal luogo di produzione al luogo di deposito. Nell’intero arco della propria vita lavorativa operava in reparti ove erano collocati forni per il trattamento termico dei metalli, che venivano coibentati con amianto della species più friabile, date le note proprietà termoisolanti.

Il contatto con tali materiali avveniva in modo diretto, e senza alcuna cautela per i lavoratori, nel ciclo della produzione, senza che essi fossero minimamente informati sui rischi per la salute cui erano sottoposti, ne adeguatamente tutelati.

Venivano fornite maschere, occhiali, guanti e tute ma in modo del tutto approssimativo. I guanti e le tute, completamente impregnate di asbesto, a fine settimana, venivano riportate a casa per il normale lavaggio. Non si trattava, dunque, come avrebbe dovuto essere in ragione della pericolosità della lavorazione, di divise ad hoc fornite e poi ripulite o smaltite, a cura del datore.

Tutti i dipendenti consumavano il pasto direttamente sul posto di lavoro, senza cambiarsi ne adottare le misure di tutela più elementari. La società datrice non disponeva, all’interno dei propri stabilimenti, di impianti di depurazione dell’aria e degli indumenti indossati dai lavoratori dipendenti.

I familiari del signor Z ottenevano il risarcimento del danno per la perdita del congiunto, avendo il Tribunale di Terni riconosciuto il nesso causale tra la malattia e l’attività lavorativa svolta.