Raccontiamo il caso di un dipendente di banca afflitto da straining in ufficio, per il quale lo studio legale Palcani ha ottenuto il riconoscimento degli effetti negativi e il conseguente risarcimento del danno.

Dipendente di un importante istituto di credito bancario italiano, il Sig. Francesco (il nome è di fantasia, ndr), subiva un demansionamento ed una serie di condotte pregiudizievoli che determinavano un ambiente di lavoro ostile e stressante.

Francesco si trovava così in una situazione lavorativa conflittuale di stress forzato, accresciuto dall’allontanamento dalla direzione generale nonché dall’invio di lettere di scherno diffuse in banca.
Il lavoratore subiva quindi azioni ostili, seppure limitate nel numero e in parte distanziate nel tempo, ma tali da provocare in lui una modificazione in negativo della situazione lavorativa atta ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato.

Il datore di lavoro, per legge, è tenuto ad evitare situazioni “stressogene” che diano origine ad una condizione che per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, possa presuntivamente ricondurre allo “straining” anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio.

Lo stress forzato, infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità, può anche derivare dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro ostile per incuria e disinteresse nei confronti del suo benessere lavorativo, con conseguente violazione, da parte datoriale, del disposto dell’articolo 2087 del codice civile.

Proprio a fronte di tale assunto lo studio legale Palcani ha ottenuto che la banca, in qualità di datore di lavoro, riconoscesse a Francesco il risarcimento del danno, nella configurazione più attenuata del cosiddetto “straining”.