La Corte di Cassazione di recente si è occupata di una vicenda molto triste (la perdita del bambino in corso di gravidanza) ma stabilendo un principio importante, ossia il diritto al risarcimento per perdita della genitorialità in caso di errore medico e per il conseguente danno psichico.

 Si tratta di una decisione (ordinanza del 15 settembre 2020, n. 19190) con la quale la Terza sezione civile della Suprema Corte, che è il giudice di ultima istanza, ha disposto sul caso di una donna prossima al parto ricoverata per perdita di liquido amniotico, che successivamente però perdeva il bambino.

In sede civile la Corte ha riconosciuto la responsabilità, piena ed esclusiva, della ginecologa per non essere stata in grado di dedurre dal tracciato fetale le informazioni utili, in particolare la sofferenza fetale, che avrebbe dovuto indirizzarla verso un parto cesareo d’urgenza e per avere erroneamente utilizzato la terapia ossitocinica nonché per avere fatto uso imperito della ventosa.

Per la Corte dunque, nel caso di specie, erano comprovati i presupposti per la condanna al risarcimento del danno in favore dei genitori del figlio nato morto, nella duplice configurazione di danno non patrimoniale per la perdita del feto e danno biologico.

Nonostante umanamente siamo consapevoli che si tratti di un danno che non potrà mai essere “risarcito” in una misura proporzionata alla sua reale entità di dolore, il diritto stabilisce alcune regole per cercare di “indennizzare” le vittime.
Per poter “quantificare” il danno e quindi applicare il sistema cosiddetto “tabellare” ai fini della liquidazione ai genitori, la Corte ha preso in considerazione il venire meno di una relazione affettiva potenziale e non concreta.

La Corte ha riconosciuto inoltre il danno biologico psichico permanente (compromissione della vita di relazione, sociale, lavorativa) seppure privo di personalizzazione.